Condivido questo eccellente articolo che approvo in pieno preso da Il Post redatto il 23 settembre da Marco Simoni:
" La solfa della ribellione è una stronzata
Il titolo è insolito ma necessario, per sottolineare e spiegare meglio quanto ho scritto in maniera troppo criptica e indiretta nel pezzo di un paio di giorni fa. In realtà, nonostante la sintesi, alcuni commenti di critica al mio pezzo hanno colto bene quel che intendevo dire e mi preme ribadirlo in maniera più diffusa.
Uno dei primi passi concettuali da fare, secondo me, per arrivare a un rapporto diverso della società e del suo discorso pubblico con le generazioni dei giovani adulti italiani è quello di liberarsi della solfa della ribellione. Si tratta di una stronzata, come da titolo, che ha l’unica pessima funzione di contribuire a di tenere i giovani adulti italiani in uno stato di perenne giogo e subalternità intellettuale rispetto agli adulti anziani e vecchi che ancora muovono i fili delle decisioni in Italia.
Infatti, questa retorica della ribellione è un prodotto della subcultura degli anni settanta, ossia dei luoghi comuni più triti e conformisti, secondo cui una immaginaria generazione a cavallo dei sessanta e settanta avrebbe conquistato grandi diritti che successivamente sono stati mano mano tolti alle generazioni successive, imbelli e anche un po’ imbecilli. Da un punto di vista giuridico, questa è una fesseria. Il cosiddetto statuto dei lavoratori, che contiene la serie fondamentale di diritti del lavoro negata alle generazioni giovani, è largamente un parto della cultura politica socialista, del PSI, ed è il portato di rivendicazioni e lotte sindacali decennali che negli anni sessanta, grazie ad un mutato contesto politico e sociale, al boom industriale e, soprattutto, all’esistenza della democrazia rappresentativa, hanno avuto la possibilità di essere tradotti in legge.
Non discuto qui le conquiste degli anni Sessanta e Settanta sul piano dei costumi – ammesso che abbia senso chiamarle conquiste – derivate dalla ribellione della generazione degli attuali anziani. Sarebbe anche interessante capire cosa ci fosse di così eroico nell’usare la liberta individuale, garantita dalla democrazia, per fare cose che in tempi diversi, e senza democrazia, i loro genitori non avevano potuto fare. Ma appunto, non ne discuto perché è un tema diverso.
Qui si sta discutendo invece di quell’artificio retorico, spesso usato dagli anziani ma a volte anche dai giovani adulti, come alcuni commentatori del mio post di ieri, secondo cui in fondo in fondo la responsabilità della situazione di giogo ed oppressione, economica e sociale, a cui sono sottoposte le generazioni giovani in Italia è degli stessi giovani e della loro incapacità di ribellarsi. Tralasciamo la questione della sindrome di Stoccolma, o dell’inversione dell’onere della prova. Quando mai la responsabilità, la colpa, di soprusi, umiliazioni o, più semplicemente, ingiustizie, è di chi le subisce? Quale colpevole spregio della logica e della realtà è necessario compiere per affermare queste cose? Oppure quale transfer psicologico e profonda sudditanza nei confronti della generazione precedente, quella che invece sì, si sarebbe ribellata. Ma quando si è ribellata? A chi si è ribellata, ottenendo cosa? Questo non viene mai discusso, confondendo la lotta di classe – che è esistita e tramontata per ragioni che non hanno nulla a che vedere con le generazioni – con le diversi classi di età. E non si riflette neanche sul fatto che se esistono le ingiustizie e le oppressioni, la ragione tecnica – stiamo quindi entrando nel campo delle tautologie – è che c’è qualcuno che opprime, c’è qualcuno che perpetra l’ingiustizia. Per opprimere bisogna avere potere, essere più forti, avere capacità di ricatto: senza quella forza nessuno può opprimere. Molto spesso, innanzitutto, se non ci si ribella è perché non ci si può ribellare, perché non si è nelle condizioni di fare altro.
Una delle ragioni fondamentali del fatto che in Italia i giovani stanno male, per essere sintetici, poi certo ci sono le eccezioni, ed hanno una prospettiva meno rosea di quella dei propri genitori all’età loro, è che l’economia italiana non cresce. Non cresce, e quindi ci sono meno posti di lavoro. Ci sono meno posti di lavoro e quindi per ogni posto ci sono cinquanta candidati e il salario, e le condizioni di lavoro di quello che effettivamente prende il posto sono peggiori. Il lavoro gratis all’università e negli studi professionali, il praticantato sfruttato, non sono una novità. La novità è la loro estensione e il fatto che non finiscono mai. E la ragione principale di questo è che l’economia è ferma da venti anni. E una delle ragioni principi di questa stagnazione è il debito pubblico enorme, galattico, esagerato, che l’Italia ha accumulato negli anni ‘80, per cui non c’è una lira per fare nulla: non c’è una lira per la metropolitana in più che serve, non c’è una lira per la ricerca, non c’è una lira per un nuovo piano di investimenti nella green economy, non c’è una lira. Poi, non è esattamente così, nel senso che una politica economica migliore potrebbe anche essere fatta. Ma non attraverso la creatività che finora ha dimostrato la classe politica. Ma anche questo è un altro discorso e un altro dibattito.
Ad ogni modo, il debito pubblico sta là e l’Italia all’inizio degli anni ’90 stava collassando, e i decisori politici, sindacali, industriali, hanno deciso di scaricare il costo del collasso evitato sui giovani. Come? Chiedendo loro di tirare la cinghia. Non dando loro alcun servizio di assistenza (indennità di disoccupazione e asili nido), tagliando le loro pensioni, flessibilizzando il loro lavoro. Naturalmente, questo non bastava a risollevare l’economia, ma basta a galleggiare e si galleggia da vent’anni.
Ora, quando mi riferivo alla generazione della responsabilità e dei sacrifici, mi riferisco all’atteggiamento medio che io, senza statistiche ma con strumenti di stima spannometrica e aneddotica, posso testimoniare, e credo vada apprezzato e sottolineato. Parlo della maturità con cui le generazioni degli anni Settanta e Ottanta, prive delle ideologie irresponsabili e immature dei loro genitori, hanno affrontato la situazione che si sono trovati a vivere. Maturità, serietà e spirito di sacrificio che non c’entrano nulla col fatto che non si tratta di una situazione scelta ma di una situazione imposta. Pur nella enorme diversità, anche la generazione dei loro nonni si trovò – durante e immediatamente dopo la guerra – in situazione di grandi difficoltà, individuali e collettive, affrontate con la stessa tenacia e serietà, con pochi fronzoli e grilli per la testa, e il risultato di far diventare l’Italia un paese ricco. Anche loro non si scelsero quei sacrifici, non per questo rimangono sacrifici di minor valore, al contrario. Vogliamo paragonare i risultati delle generazioni nate negli anni ‘10-‘30 a quelle nate negli anni ‘30-‘50? No, ecco, è meglio non fare paragoni tra le generazioni.
Infatti, quello che sostengo non ha alcun bisogno di paragoni, ma solo di un po’ di onestà intellettuale. È necessario riconoscere e valorizzare la maturità, la serietà e il valore sociale del lavoro svolto oggi dalle generazioni dei giovani adulti, caratterizzato da grandi sacrifici che hanno contribuito ad evitare il collasso del paese. Un lavoro svolto in condizioni personali e sociali molto difficili. Qualora si sottostimasse invece il lavoro svolto, si ignorasse l’importanza e il valore di quei sacrifici, sarebbe allora il tempo della reazione.
La protesta dei ricercatori di Bologna, caso raro in cui un gruppo di persone relativamente giovane è riuscito a sottrarsi ai tanti ricatti individuali ed è riuscito ad organizzare una azione collettiva, proprio per questo è emblematico: perché è una protesta che ha al centro l’orgoglio per la funzione indispensabile da essi svolta per la propria istituzione, funzione che non può essere ignorata, o trattata con alzate di spalle come hanno fatto le autorità accademiche, umiliando una volta in più l’istituzione che dovrebbero tutelare.
Dunque, per portare alle giuste conseguenze, tra le quali può essere la protesta, ma c’è anche il voto, la partecipazione politica, l’espressione pubblica delle proprie idee, eccetera, il proprio orgoglio per il contributo che si da al proprio paese, e alla sua economia e società, bisogna innanzitutto avercelo, l’orgoglio. Avere la consapevolezza che se già l’Italia annaspa, senza i sacrifici dei suoi uomini e donne più giovani lo stivale sarebbe affondato nel Mediterraneo da un pezzo, lasciato nelle mani degli attuali leader diffusi. L’orgoglio deriva allora da questa consapevolezza, e le fuffe sulla ribellione che, a differenza del passato, mancherebbe, vanno gettate nel luogo che meritano da cui il titolo di questo post."
Il titolo è insolito ma necessario, per sottolineare e spiegare meglio quanto ho scritto in maniera troppo criptica e indiretta nel pezzo di un paio di giorni fa. In realtà, nonostante la sintesi, alcuni commenti di critica al mio pezzo hanno colto bene quel che intendevo dire e mi preme ribadirlo in maniera più diffusa.
Uno dei primi passi concettuali da fare, secondo me, per arrivare a un rapporto diverso della società e del suo discorso pubblico con le generazioni dei giovani adulti italiani è quello di liberarsi della solfa della ribellione. Si tratta di una stronzata, come da titolo, che ha l’unica pessima funzione di contribuire a di tenere i giovani adulti italiani in uno stato di perenne giogo e subalternità intellettuale rispetto agli adulti anziani e vecchi che ancora muovono i fili delle decisioni in Italia.
Infatti, questa retorica della ribellione è un prodotto della subcultura degli anni settanta, ossia dei luoghi comuni più triti e conformisti, secondo cui una immaginaria generazione a cavallo dei sessanta e settanta avrebbe conquistato grandi diritti che successivamente sono stati mano mano tolti alle generazioni successive, imbelli e anche un po’ imbecilli. Da un punto di vista giuridico, questa è una fesseria. Il cosiddetto statuto dei lavoratori, che contiene la serie fondamentale di diritti del lavoro negata alle generazioni giovani, è largamente un parto della cultura politica socialista, del PSI, ed è il portato di rivendicazioni e lotte sindacali decennali che negli anni sessanta, grazie ad un mutato contesto politico e sociale, al boom industriale e, soprattutto, all’esistenza della democrazia rappresentativa, hanno avuto la possibilità di essere tradotti in legge.
Non discuto qui le conquiste degli anni Sessanta e Settanta sul piano dei costumi – ammesso che abbia senso chiamarle conquiste – derivate dalla ribellione della generazione degli attuali anziani. Sarebbe anche interessante capire cosa ci fosse di così eroico nell’usare la liberta individuale, garantita dalla democrazia, per fare cose che in tempi diversi, e senza democrazia, i loro genitori non avevano potuto fare. Ma appunto, non ne discuto perché è un tema diverso.
Qui si sta discutendo invece di quell’artificio retorico, spesso usato dagli anziani ma a volte anche dai giovani adulti, come alcuni commentatori del mio post di ieri, secondo cui in fondo in fondo la responsabilità della situazione di giogo ed oppressione, economica e sociale, a cui sono sottoposte le generazioni giovani in Italia è degli stessi giovani e della loro incapacità di ribellarsi. Tralasciamo la questione della sindrome di Stoccolma, o dell’inversione dell’onere della prova. Quando mai la responsabilità, la colpa, di soprusi, umiliazioni o, più semplicemente, ingiustizie, è di chi le subisce? Quale colpevole spregio della logica e della realtà è necessario compiere per affermare queste cose? Oppure quale transfer psicologico e profonda sudditanza nei confronti della generazione precedente, quella che invece sì, si sarebbe ribellata. Ma quando si è ribellata? A chi si è ribellata, ottenendo cosa? Questo non viene mai discusso, confondendo la lotta di classe – che è esistita e tramontata per ragioni che non hanno nulla a che vedere con le generazioni – con le diversi classi di età. E non si riflette neanche sul fatto che se esistono le ingiustizie e le oppressioni, la ragione tecnica – stiamo quindi entrando nel campo delle tautologie – è che c’è qualcuno che opprime, c’è qualcuno che perpetra l’ingiustizia. Per opprimere bisogna avere potere, essere più forti, avere capacità di ricatto: senza quella forza nessuno può opprimere. Molto spesso, innanzitutto, se non ci si ribella è perché non ci si può ribellare, perché non si è nelle condizioni di fare altro.
Una delle ragioni fondamentali del fatto che in Italia i giovani stanno male, per essere sintetici, poi certo ci sono le eccezioni, ed hanno una prospettiva meno rosea di quella dei propri genitori all’età loro, è che l’economia italiana non cresce. Non cresce, e quindi ci sono meno posti di lavoro. Ci sono meno posti di lavoro e quindi per ogni posto ci sono cinquanta candidati e il salario, e le condizioni di lavoro di quello che effettivamente prende il posto sono peggiori. Il lavoro gratis all’università e negli studi professionali, il praticantato sfruttato, non sono una novità. La novità è la loro estensione e il fatto che non finiscono mai. E la ragione principale di questo è che l’economia è ferma da venti anni. E una delle ragioni principi di questa stagnazione è il debito pubblico enorme, galattico, esagerato, che l’Italia ha accumulato negli anni ‘80, per cui non c’è una lira per fare nulla: non c’è una lira per la metropolitana in più che serve, non c’è una lira per la ricerca, non c’è una lira per un nuovo piano di investimenti nella green economy, non c’è una lira. Poi, non è esattamente così, nel senso che una politica economica migliore potrebbe anche essere fatta. Ma non attraverso la creatività che finora ha dimostrato la classe politica. Ma anche questo è un altro discorso e un altro dibattito.
Ad ogni modo, il debito pubblico sta là e l’Italia all’inizio degli anni ’90 stava collassando, e i decisori politici, sindacali, industriali, hanno deciso di scaricare il costo del collasso evitato sui giovani. Come? Chiedendo loro di tirare la cinghia. Non dando loro alcun servizio di assistenza (indennità di disoccupazione e asili nido), tagliando le loro pensioni, flessibilizzando il loro lavoro. Naturalmente, questo non bastava a risollevare l’economia, ma basta a galleggiare e si galleggia da vent’anni.
Ora, quando mi riferivo alla generazione della responsabilità e dei sacrifici, mi riferisco all’atteggiamento medio che io, senza statistiche ma con strumenti di stima spannometrica e aneddotica, posso testimoniare, e credo vada apprezzato e sottolineato. Parlo della maturità con cui le generazioni degli anni Settanta e Ottanta, prive delle ideologie irresponsabili e immature dei loro genitori, hanno affrontato la situazione che si sono trovati a vivere. Maturità, serietà e spirito di sacrificio che non c’entrano nulla col fatto che non si tratta di una situazione scelta ma di una situazione imposta. Pur nella enorme diversità, anche la generazione dei loro nonni si trovò – durante e immediatamente dopo la guerra – in situazione di grandi difficoltà, individuali e collettive, affrontate con la stessa tenacia e serietà, con pochi fronzoli e grilli per la testa, e il risultato di far diventare l’Italia un paese ricco. Anche loro non si scelsero quei sacrifici, non per questo rimangono sacrifici di minor valore, al contrario. Vogliamo paragonare i risultati delle generazioni nate negli anni ‘10-‘30 a quelle nate negli anni ‘30-‘50? No, ecco, è meglio non fare paragoni tra le generazioni.
Infatti, quello che sostengo non ha alcun bisogno di paragoni, ma solo di un po’ di onestà intellettuale. È necessario riconoscere e valorizzare la maturità, la serietà e il valore sociale del lavoro svolto oggi dalle generazioni dei giovani adulti, caratterizzato da grandi sacrifici che hanno contribuito ad evitare il collasso del paese. Un lavoro svolto in condizioni personali e sociali molto difficili. Qualora si sottostimasse invece il lavoro svolto, si ignorasse l’importanza e il valore di quei sacrifici, sarebbe allora il tempo della reazione.
La protesta dei ricercatori di Bologna, caso raro in cui un gruppo di persone relativamente giovane è riuscito a sottrarsi ai tanti ricatti individuali ed è riuscito ad organizzare una azione collettiva, proprio per questo è emblematico: perché è una protesta che ha al centro l’orgoglio per la funzione indispensabile da essi svolta per la propria istituzione, funzione che non può essere ignorata, o trattata con alzate di spalle come hanno fatto le autorità accademiche, umiliando una volta in più l’istituzione che dovrebbero tutelare.
Dunque, per portare alle giuste conseguenze, tra le quali può essere la protesta, ma c’è anche il voto, la partecipazione politica, l’espressione pubblica delle proprie idee, eccetera, il proprio orgoglio per il contributo che si da al proprio paese, e alla sua economia e società, bisogna innanzitutto avercelo, l’orgoglio. Avere la consapevolezza che se già l’Italia annaspa, senza i sacrifici dei suoi uomini e donne più giovani lo stivale sarebbe affondato nel Mediterraneo da un pezzo, lasciato nelle mani degli attuali leader diffusi. L’orgoglio deriva allora da questa consapevolezza, e le fuffe sulla ribellione che, a differenza del passato, mancherebbe, vanno gettate nel luogo che meritano da cui il titolo di questo post."
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