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martedì 29 marzo 2011

Nuove Opportunità per le imprese: Wind Business Factor

E' una community per imprese, in particolar modo per Start-Up, che si propone di sostenere la nascita delle Start-Up e la crescita delle imprese innovative in Italia.
Il Progetto nasce dalla collaborazione di The Blog TV e Wind ed offre ai membri della community la possibilità di creare una rete di alleanze strategiche utili e la possibilità di instaurare:

Relazioni: orientate alla creazione di un business network di valore, che permetta di presentare business ideas e start-up ai venture capital, di favorire il confronto fra imprenditori sulle tematiche d'impresa, di reperire servizi utili ed efficienti per l'impresa, di ampliare il proprio parco clienti e fornitori;
Conoscenze: fondate su esperienze e pratiche di successo nelle PMI italiane ed orientate alla qualità e all'innovazione dei prodotti e servizi;
Opportunità: basate su un'offerta di prodotti e servizi a condizioni speciali e sulle possibilità di ricever e premi e visibilità

Wind Business Factor inoltre offre l'opportunità di interagire con Venture Capitalist (tra i Partner ufficiali dell'iniziativa è presente Innogest, tra i fondi d’investimento più grandi e più importanti in Italia) ed offre una Palestra di business in cui dei Personal trainer dedicati per ogni area necessaria allo sviluppo dell'ìimpresa terranno delle sessioni formative.

Se avete un'idea o una start-up da sviluppare, non aspettate altro tempo!!!!

venerdì 25 marzo 2011

Il caso Parmalat e le falle del Capitalismo Italiano

Dopo il crack del 2003 Parmalat è divenuta una vera Public Company, cioè una società a capitale diffuso senza patti di sindacato per il controllo della società, con circa 4 Miliardi di fatturato e circa 1,5 miliardi di liquidità.
In uno scenario del genere chiunque con un po' di sale in zucca, nonostante gli obblighi statutari di risarcire i risparmiatori vittime del crack con il 50% degli utili, ci avrebbe fatto un pensierino. Il dossier da tempo girava per i tavoli dell'alta finanza europea tant'è che vari fondi detenevano quote della società.
I francesi di Lactalis hanno fiutato l'affare rastrellando il 14% sui mercati ed acquistando le quote dei fondi d'investimento per un valore inferiore alla sola liquidità di Parmalat.
Fin qui cronaca.
Ora iniziano le polemiche:
Polemica numero 1: è possibile che una società redditiva ed in salute sia stata ignorata dai capitalisti italiani nonostante tutte le maggiori banche d'affari (Societè Generale in primis) avevano ben chiara la situazione da tempo? I nostri capitani d'impresa erano troppo impegnati in aspre "guerre di bande" per affari ben meno redditivi come RCS (Rizzoli-Corriere della Sera)? E le Banche italiane, in prima fila nel condurre "operazioni di sistema" se lo richiede qualche politico, che ruolo hanno giocato? Anche se non si fosse interessati a Parmalat da un punto di vista industriale, i dati finanziari sono positivi per considerare Parmalat un buon investimento finanziario.
Polemica numero 2: l'Italia è l'ultimo paese europeo per investimenti esteri sul territorio per vari motivi (bassa competitività), ma una volta che ci sia qualcuno disposto ad acquistare ne succedono di tutti i colori. D'accordo, Lactalis non è uno qualunque, anzi la sua nazionalità ci riporta alla mente le manovre relative all'affaire Enel-Suez ed alle miridiade di partecipazioni di società francesi nelle società italiane (Mediobanca, Edison, Bulgari e ci hanno provato con Alitalia ed il Gruppo Ligresti). Sarà proprio il comportamento dei francesi a suscitare le razioni economico/politiche di questi giorni?
Polemica numero 3: Perchè in Italia ci ricordiamo che esistono dei "settori strategici con implicazioni di sistema" soltanto quando cercano di comprarci le aziende che operano in questi settori? Ma non è il caso che in Italia si  inizia a fare una seria politica industriale e magari proprio come fanno i francesi si identificano una decina di settori "strategici" per il paese? Forse dopo Bulgari non ci si può permettere di perdere un pezzo di un'industria simbolo dell'italianità nel mondo? 
Certo che se tutti non ci diamo una svegliata il futuro non è certamente roseo...

sabato 19 marzo 2011

Il futuro è Open

Come si evince dalla ricerca di Nielsen (foto a lato) il tasso di crescita di Android è nettamente superiore a quelli dell'iPhone e del Blackberry che accusano una lieve flessione della loro quota di mercato.
Questo è sicuramente dovuto ai continui miglioramenti della piattaforma Android ed alla maggiore diffusione di smartphone con il sistema operativo di Google.
Ma a mio parere c'è anche un fattore che spesso ha determinato l'affermazione di uno standard nel mercato: le esternalità di rete.
Le esternalità di un prodotto sono molto importanti ma lo sono ancora di più se su questo prodotto si sviluppano nuovi settori e mercati come il mondo della applicazioni mobile (mercato stimato attorno i 12 miliardi di $ entro il 2012).
Sicuramente l'utilizzo di standard aperti orientati al paradigma Open Source consente di aumentare le probabilità di innescare il Bandwagon Effect, determinante per l'affermarsi dello standard.
Da un lato abbiamo piattaforme proprietarie come quella di Apple (iPhone) e RIM (Blackberry) che presentano degli ambienti abbastanza chiusi, strettamente controllati e talvolta ingiustificatamente burocratici (basti pensare alla poco trasparente certificazione di Apple che ha certificato anche applicazioni di mobile phishing); dall'altro lato troviamo il mondo open di Android che si integra naturalmente con tutto il mondo dei servizi di Big G e la possibilità di sfruttare al meglio la dotazione hardware dello smartphone.
I dati della ricerca Nielsen sembrano confermare quanto riportato nella letteratura accademica: gli standard Open vincono sempre! 

martedì 1 marzo 2011

Il dilemma dell'innovazione

apple-vs-google
Ripropongo un interessante pezzo preso da "Lo Spazio della Politica":

Questa puntata di Next Round non è dedicata né ad una startup né ad una istituzione ma ad un concetto: il cosiddetto “innovator’s dilemma”. Si tratta di una teoria che spiega molti dei fenomeni in atto nel sistema dell’innovazione competitiva delle imprese, un punto di vista sistematizzato in modo efficace in un famoso libro di Clayton Christensen, docente alla Harvard Business School.
Perché Google, considerata tra le aziende più innovative al mondo, con al suo interno migliaia di ingegneri competenti e creativi, che raccoglie alcune delle menti migliori al mondo in molti settori – dalla teoria delle reti all’intelligenza artificiale –ha la necessità di “mangiare” costantemente startup ? Parliamo di un processo molto rilevante, 25 acquisizioni dal settembre 2009 al settembre 2010, spesso formate da poche persone giovani, a colpi di 50-100 milioni di dollari l’una. L’azienda, che oggi ha una posizione dominante nel settore della search, per poter mantenere una dinamica di successo deve oggi cogliere nuove sfide radicali, come quelle legate alla combinazione della rivoluzione mobile e del cloudcomputing. Questo processo ha un significato se lo leggiamo come dinamica di risposta ad un problema più ampio.

Il dilemma dell’innovatore riguarda l’incapacità delle grandi organizzazioni di cogliere innovazioni di tipo “disruptive” e non meramente incrementali. Il tipo di avanzamenti che non riguardano solo un aumento di performance o di efficienza del prodotto (rendere più veloce un software, aumentare la durata della batteria di un cellulare, ridurne il costo a parità di caratteristiche, etc.)ma che cambiano le regole del gioco. Si tratta di un problema strutturale legato alla crescita delle imprese e alla configurazione di incentivi interni, una dinamica riscontrabile in molti settori ed in diverse epoche storiche. Ci sono tuttavia eccezioni rilevanti, contesti in grado di spezzare questa dinamica e ad inventare nuovi mercati o reinventare quelli esistenti: si pensi al caso della Apple con l’iPod, l’iPhone e l’iPad.
Il caso dell’azienda di Steve Jobs non è scontato: nella maggior parte delle grandi organizzazioni il dilemma dell’innovatore prende il sopravvento. Il successo, la crescita e la redditività dei prodotti esistenti porta strutturalmente all’incapacità di innovare in modo radicale. Questo accade non perché le persone alla guida delle grandi aziende siano incapaci di ragionare strategicamente, ma perché la loro stessa impalcatura organizzativa cannibalizza e disincentiva le innovazioni dirompenti: queste spesso vanno contro i gusti espressi dai consumatori negli studi di mercato, possono generare bassi margini nelle fasi iniziali o, peggio ancora, vanno a sovrapporsi a prodotti che l’azienda già vende con successo. Il ciclo di vita delle organizzazioni, come mostrano autori come Christensen, porta fisiologicamente a questo processo.
Il superamento del dilemma dell’innovatore è oggi legato a varie ipotesi: sistemi di open innovation, acquisizioni, politiche strutturate per l’ingresso in nuovi mercati. Non c’è una soluzione predefinita, ma una cosa è certa: oggi le grandi organizzazioni hanno bisogno di sistemi per riprodurre all’interno lo spirito imprenditoriale e l’ingenuità creativa tipica delle starup, mettendo in piedi processi aziendali che favoriscano l’ideazione e la commercializzazione di innovazioni radicali.

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